Lucio e il Jazz
Lucio Dalla era nato con il jazz.
Era un ragazzino e già suonava il clarinetto da dio. La descrizione perfetta del suo talento è nel racconto-confessione di Pupi Avati che in quella Bologna che, tra gli anni ’50 e ’60, era una delle capitali del jazz europeo, si sentiva il clarinettista star del jazz tradizionale. Quando sulla scena arrivò Dalla, Pupi prima pensò di ucciderlo per l’invidia poi, più saggiamente, lasciò la musica per dedicarsi al cinema. Nel frattempo Lucio era nei cartelloni dei festival internazionali e a 15-16 anni già suonava in jam session con Chet Baker. Questo debutto folgorante è l’incipit di un amore lungo una vita.
Senza il jazz, e il soul e il rhythm and blues, è impossibile capire Lucio Dalla (ammesso che sia veramente possibile).
Più che ricordare le tappe schiettamente jazzistiche della sua avventura musicale – le imprese con l’amico Jimmy Villotti, il disco con Marco di Marco, gli incontri con Mario Schiano (ìlare santone del free jazz italiano) ed Enrico Rava, la tournée con Stefano Di Battista e, soprattutto, le straordinarie performance con Michel Petrucciani, qui vale la pena sottolineare un aspetto più, per dir così, costitutivo del suo rapporto con la musica afro americana.
Come Jack Kerouac e Julio Cortazar, che cercavano il punto di incontro tra la parola scritta e il ritmo del jazz e la sua universalità, Lucio Dalla ha portato nella canzone un modo diverso di pensare e di cantare, di concepire la parola anche per il suo suono e il valore ritmico, una libertà dagli schemi e un bagaglio di intuizioni e soluzioni armoniche e melodiche che sono l’essenza del jazz.
Una musica, il jazz, fondata sull’improvvisazione, sulla composizione istantanea, sull’imprevedibilità: se si immaginasse di unire con una matita queste tre parole, come si fa con i numeri nel gioco del disegno misterioso , ne uscirebbe un ritratto di Lucio.
Dalla ha disseminato di jazz il suo incredibile canzoniere: ci sono tracce evidenti (perfino improvvisazioni), omaggi e percorsi nascosti. E chi ha avuto il piacere di assistere ai suoi sound check, ricorderà come all’improvviso fosse capace di far uscire dal piano standard celebrati come brani di Monk, Mingus e perfino di Roland Kirk, inseguendo il filo di connessioni che solo lui sapeva trovare.
E’ difficile ricordare un uomo e un artista divertente come è stato Lucio Dalla. E dal momento che quando si parla di lui se ci si prende troppo sul serio c’è sempre il pericolo che dal Paradiso dei Grandi scenda una sonora pernacchia, è bene concludere nel segno di quella che è sempre stata una specialità della casa: lo scat, quella forma di improvvisazione vocale che sostituisce le note con sillabe e vocalizzi senza senso compiuto. Lucio padroneggiava questa tecnica da virtuoso del gramelot (il suo duetto con Dario Fo è un pezzo di grande teatro), sapeva unirla alla più alta forma di comicità e la usava nella musica ma anche nella vita di tutti giorni per spiazzare, come ha fatto tutta la vita, i suoi interlocutori.
E se un giorno dovesse capitare sul nostro pianeta un alieno che avesse voglia di sapere cos’è la musica nera è sufficiente fargli ascoltare l’irresistibile lampo di “Cos’è Bonetti”. Perchè anche a un alieno conviene sapere che in agguato c’è sempre una risata che ti può seppellire.